Diritto penitenziario. Il risarcimento per trattamenti inumani e degradanti.
Detenzione degradante e ammissibilità del risarcimento
1. Premessa.
La sentenza emessa dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, sez. II, causa Torregiani c Italia l’ 8 gennaio 2013, con decisione presa all’unanimità, condannò l’Italia per violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei diritti umani.
Il richiamato art. 3 della CEDU prevede che " nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.
La sentenza riguarda sette ricorsi depositati tra il 2009 ed il 2010 da altrettanti detenuti, tre italiani, due marocchini, uno ivoriano ed un albanese, che lamentavano un trattamento inumano e degradante. Costoro, infatti stati detenuti in celle di nove metri quadrati, ma da condividere con altre due persone, per periodi che andavano da 14 a 54 mesi, tra il 2006 ed 2011. Lamentavano inoltre che le celle erano scarsamente illuminate e che l’accesso all’acqua calda per docce era limitato.
Nonostante tutti i ricorrenti, meno uno, fossero ormai liberi al momento in cui la Corte si pronunciava, essi, non per questo, a parere dell’organo giudicante avevano perso la qualità di ”vittime” della violazione dell’art. 3.
Ed infatti la Corte, riconosciuta la violazione del diritto, stabiliva che : "lo Stato convenuto dovrà, entro un anno dalla data in cui la presente sentenza sarà divenuta definitiva in virtù dell’art.44 § 2 della Convenzione, istituire un ricorso o un insieme di ricorsi interni effettivi idonei ad offrire una riparazione adeguata e sufficiente in caso di sovraffollamento carcerario, e ciò conformemente ai principi della Convenzione come stabiliti dalla Giurisprudenza della Corte”.
Il legislatore italiano allora, con l’art. 1, comma 1 del D.L. 26 giugno 2014 n. 92, convertito con modificazioni nella L. 11 agosto 2014, n. 117 introdusse l’art. 35 ter della legge 26 luglio 1975 n. 354 (meglio nota come ordinamento penitenziario).
Tale norma dal titolo- Rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nei confronti di soggetti detenuti o internati – ha stabilito la possibilità, per il detenuto che abbia subito un pregiudizio durante la detenzione, e nella ipotesi che tale pregiudizio abbia violato l’art. 3 della CEDU e si sia protratto per almeno 15 giorni, di proporre una istanza al magistrato di sorveglianza al fine di ottenere una riduzione della detenzione o una somma a titolo di risarcimento dei danni.
In effetti il comma 1 dispone che : "il magistrato di sorveglianza dispone, a titolo di risarcimento del danno, una riduzione della pena detentiva ancora da espiare pari, nella durata, a un giorno per ogni dieci durante il quale il richiedente ha subito il pregiudizio”
Il successivo comma 2 poi prevede che : "Quando il periodo di pena ancora da espiare è tale da non consentire la detrazione dell’intera misura percentuale di cui al comma 1, il magistrato di sorveglianza liquida altresì al richiedente, in relazione al residuo periodo ed a titolo di risarcimento del danno, una somma di denaro pari ad € 8,00 per ciascuna giornata nella quale questi ha subito il pregiudizio”.
Il magistrato provvede in tal senso anche se il periodo di detenzione sia stato inferiore a 15 giorni.
Il successivo comma 3, infine stabilisce che possono esercitare, personalmente o a mezzo di difensore munito di procura speciale, l’azione civile dinanzi il Tribunale monocratico del capoluogo del distretto ove hanno residenza, anche :
1) Coloro che hanno subito il pregiudizio di cui al comma 1, in stato di custodia cautelare in carcere non computabile nella determinazione della pena da espiare;
2) Coloro che hanno terminato di espiare la pena detentiva in carcere .
Anche in tal caso la liquidazione è stabilita nella misura indicata dal comma 2, vale a dire 8,00 € per ogni giorno di detenzione.
2. Il danno da risarcire e il requisito della "attualità” della condizione detentiva.
In molte pronunce i magistrati di sorveglianza, competenti alla trattazione dei reclami dei detenuti in virtù dell’art. 69 comma 6 lett. b) legge n.354/1976 1 lett. b, avevano dichiarato la inammissibilità dei ricorsi in quanto presentati dopo la cessazione dello stato di "trattamento disumano” per accertata cessazione della condizione di sovraffollamento.
Sulla base di tale presupposto molti magistrati hanno ritenuto "inammissibile” la richiesta del detenuto in quanto, a loro parere, " presupposto necessario ai fini del risarcimento nella forma della riduzione della pena detentiva da espiare, di competenza del magistrato di sorveglianza, è l’attualità” del pregiudizio al momento della richiesta”.
Recentemente la Corte di Cassazione ha però disatteso totalmente tale motivazione polverizzando, è proprio il caso di dirlo una motivazione che non aveva fondamenti giuridici validi.
Il Magistrato di Sorveglianza di Foggia, infatti, aveva ritenuto la inammissibilità de ricorso ex art. 35 ter o.p. di un detenuto straniero che lamentava la condizione di sottoposizione a trattamento inumano per sovraffollamento carcerario.
La domanda era stata presentata il 31 ottobre 14 per il periodo 14 agosto 2009 – 29 ottobre 14.
Il Magistrato aveva ritenuto carente il requisito della attualità in quanto al momento della richiesta la condizione di sovraffollamento era cessata.
La cassazione ha annullato tale ordinanza.
Con sentenza n. 46966 depositata il 25.11.2015 la prima sezione penale della Suprema Corte ha ritenuto di escludere la possibilità di ritenere non attuale il pregiudizio nella ipotesi in cui al condizione di sovraffollamento sia cessata.
Così motiva la Corte : " L’esclusione del rimedio risarcitorio dello sconto di pena per coloro che in costanza di detenzione lamentino il pregiudizio derivante da condizioni di carcerazione inumane non più attuali, perché rimosse, non risulta conforme, sotto il profilo logico sistematico, alle finalità proprie delle disposizioni introdotte dal legislatore in materia di ordinamento penitenziario nel 2013 e 2014, per porre termine alle condizioni di espiazione delle pene detentive ritenute in contrasto con la Convenzione dei diritti dell’Uomo secondo la Corte di Strasburgo ( a partire dai casi Sulejmovic e Torregiani), per risarcire i pregiudizio derivati da tali condizioni”.
Secondo la Suprema Corte nulla autorizza a ritenere che le caratteristiche di "gravità” ed "attualità” del pregiudizio costituiscano presupposto essenziale per accedere al rimedio risarcitorio compensativo.
La tesi annullata, pertanto, non aveva alcun fondamento ne giuridico né logico : sarebbe stato davvero assurdo ritenere che non potesse porsi rimedio ad un pregiudizio riguardante le libertà fondamentali solo perché quel pregiudizio è – doverosamente- cessato e rimosso.
Non basta la cessazione di uno stato di disumanità ma occorre procedere alla riparazione legislativamente disposta.
3. Gli interpeti devono eliminare, in nome del favor libertatis, gli inutili ostacoli al riconoscimento del diritto al risarcimento per trattamento inumano o degradante.
Tuttavia, prima che la Cassazione si pronunciasse sgombrando il campo da un ostacolo al risarcimento, artificiosamente creato, già altri magistrati applicavano correttamente il principio voluto dalla CEDU ed espresso dall’art. 35 ter o.p. e ritenevano, giustamente la "attualità” un concetto di "natura causale e non meramente cronologico”.
Tra le tante quella del magistrato di Sorveglianza di Lecce con ordinanza del 5.11.2015, decidendo sul reclamo di un detenuto che lamentava di aver subito detenzione in condizioni disumane e degradanti nel periodo 20.4.13- 25.8.14 aveva già ritenuto che, anche se la momento della trattazione del reclamo il detenuto era divenuto libero, comunque il requisito della "attualità” sussisteva”.
Tale decisione spiega infatti che : "considerato, anche alla luce di un’interpretazione sistematica e non meramente letterale e della copiosa giurisprudenza comunitaria, di dover ritenere attuale anche il pregiudizio occasionalmente interrottosi alla data della trattazione del reclamo, ma comunque lamentato dal detenuto nel corso dell’espiazione del titolo di esecuzione, ritenendosi il concetto di attualità di natura causale e non meramente cronologico”.
Sicchè già l’ostacolo della non attualità era stato riconosciuto non ostativo per il riconoscimento del diritto del detenuto laddove lo stesso, al momento della trattazione del reclamo, fosse già stato liberato o se la sua condizione non fosse più quella di persona sottoposta a trattamento inumano o degradante per cessazione del sovraffollamento.
La sentenza n. 46966/2015 della I sezione penale della Cassazione, effettua un passo in avanti ed elimina definitivamente la possibilità di dichiarare inammissibili anche reclami proposti dopo la cessazione dello stato detentivo "degradante”.
Si afferma, in definitiva, una giurisprudenza più garantista ed un orientamento che si inserisce nel solco della affermazione in maniera ampia del favor libertatis come diritto fondamentale in ogni satto e grado del procedimento penale.
La libertà della persona è un valore fondamentale sia quando la stessa è in attesa di essere sottoposta a processo (al momento della custodia cautelare che deve essere riservata per i reati più gravi e deve essere in extrema ratio quella carceraria) sia quando la persona è condannata (e deve ricevere un trattamento penitenziario teso alla sua rieducazione), e ancora sia quando la persona è stata detenuta ingiustamente (perche poi assolta, e deve poter far ricorso per la riparazione dell’errore), sia quando la persona condannata è stata sottoposta a detenzione degradante (per violazione dell’art. 3 CEDU e , nello specifico, per aver avuto spazi minimi fruibili inferiori a quanto previsto dalla legge o per carenza di condizioni igienico ambientali adeguate che deve sempre poter fare reclamo per ottenere il ristoro dei danni subiti).
La libertà è un diritto fondamentale in ogni momento processuale e devono essere rimossi tutti gli inutili ostacoli, frapposti spesso da una interpretazione retrograda delle norme, alla sua tutela prima e dopo del processo, durante la espiazione della pena, e quindi deve essere ritenuto preminente il diritto alla giusta riparazione in caso di violazioni di norme poste a tutela della persona umana sottoposta a trattamento penitenziario.
Avv Filippo Castellaneta