La "Ragione” nel diritto penale e al tempo dei populismi.
La
ragione è la facoltà di pensare, peculiare dell’uomo.
Il
termine deriva dal latino: ratus, participio passato di reri
"stabilire” e onis significato originario di "conto, conteggio”.
Secondo
i dizionari essa consiste nella capacità di discernere, di determinare rapporti
logici e di formulare giudizi.
Alla
ragione si attribuisce il governo e il controllo dell’istinto.
La
ragione governa il diritto.
Nel
momento in cui i sistemi processuali hanno abbandonato il giudizio nelle forme di
"ordalia”, è stata la razionalità che ha stabilito gli assiomi del "diritto”,
ossia la sapienza giuridica, ispirata ad una ragione superiore, che armonizza
gli interessi del singolo con quelli della comunità cui appartiene.
Nel
diritto penale fondamentale è la distinzione tra la ragione nel diritto penale, ragione del diritto, ragione di diritto penale.
Nel
primo senso ragione designa il tema della razionalità delle decisioni penali e
cioè il sistema dei vincoli e delle regole, elaborato sulla tradizione liberale,
e diretto a fondare sulla "conoscenza” e non sulla "autorità” le procedure di
imputazione e di sanzionamento penale. Quindi minimizzazione del potere e
massimizzazione del "sapere giudiziario”.
La
ragione del diritto, propria della filosofia del diritto, nella
giustizia penale rappresenta ed indica le giustificazioni e la necessità delle
proibizioni, delle relative sanzioni nonché delle forme e dei criteri delle
decisioni giudiziarie.
La
ragione di diritto penale fa esplicito riferimento al fatto che il sistema
penale deve avere una sua coerenza razionale e logica, deve rappresentare,
cioè, un modello costituzionale di
legalità.
Può
affermarsi quindi che :
"La
ragione nel diritto penale implica che il Giudice pronunci le sue decisioni non
in base all’Autorità che lo investe, ma in virtù della conoscenza dei dati
processuali e della loro intepretazione in riferimento a norme ispirate al canone della
necessità delle proibizioni”.
E
quindi:
"Il processo penale deve svolgersi secondo le regole di correttezza delle decisioni giudiziarie ispirate al canone del giusto processo elevato a rango di norma costituzionale all’interno di un sistema ispirato a criteri di razionale applicazione delle norme e delle pene”.
E
che: "le norme penali devono essere emanate solo se veramente necessarie e prevedere pene legali e proporzionate al fatto”.
Se
si fosse tenuto conto di questi criteri epistemologici, il legislatore ultimo sarebbe stato più attento
e meno scriteriato nella emanazione di nuove leggi volute per cavalcare l’onda,
molto spesso immotivata, di paure inconsulte di masse opportunamente fuorviate
da campagne di stampa volte a rappresentare costantemente il "pericolo securitario”
come questione imprescindibile ed urgente.
Il
consenso popolare, spesso presunto in base a discutibili statiche promananti
dai social, ha indotto i politici
di governo ad approvare leggi ai limiti della costituzionalità: oggi pare che ogni
nuova legge penale trova la sua ratio solo e soltanto nel bisogno di
aumentare le pene, di punire nuove fattispecie di reato di assicurare che la
pena sia il carcere e solo il carcere.
Il
tutto in spregio di principi costituzionali che ispirano il diritto ed il
processo penale, e quel che è più grave in spregio di quella ragione che deve sempre
governare il diritto.
La
legge sulla prescrizione, la legge sulla legittima difesa, quella cosiddetta "spazzacorrotti”,
la legge "codice rosso” e prima ancora la legge sull’omicidio stradale altro
non sono il pasto gettato, dal politico desideroso di rapido consenso, al popolo da sempre desideroso di leggi
severe, di decisioni severe e di pene severe.
In
nome di presunte emergenze, si raddoppiano le pene, si creano nuove fattispecie
di reato che si sovrappongono molto spesso a quelle già esistenti, con palpabili
difficoltà di interpretazione e applicazione, si abbreviano i tempi delle
indagini, si rendono imprescrittibili i processi, e si creano preclusioni all’applicazione
di sanzioni alternative in maniera tale che alla fine di tutto ciò solo e
soltanto la cella del carcere sembra essere la soluzione.
Eppure
la Costituzione stabilisce che i cittadini sotto tutti uguali di fronte alla legge, e quindi anche nel corso
di un procedimento penale, che la libertà personale, le comunicazioni e la
corrispondenza sono inviolabili, che la difesa è garantita "in ogni stato e
grado del processo”, che la pena deve sempre
tendere, e quindi anche nel momento della sua previsione normativa, a criteri che
non ne facciano venir meno la sua funzione "rieducativa” e "risocializzante”.
Certo
ci sarà la Corte Costituzionale che farà in modo di intervenire, ove
sollecitata in tal senso, per ripristinare
il rispetto dei precetti costituzionali.
Ma
quello che purtroppo emerge in questa fase di preoccupante corsa del
legislatore all’aumento delle pene ed alla
ricerca di severità di decisioni per ottenere il plauso del popolo urlante,
è proprio l’accantonamento della "ragione” quale principio ispiratore delle leggi e che per
prerogativa non urla e rimane in silenzio e la
creazione accompagnata dal chiasso giustizialista di un miscuglio di norme che per la loro
eccezionalità finiscono con l’alterare le architravi portanti del sistema
penale ponendosi spesso al di fuori del sistema, fino ad oggi, appunto, razionalmente
concepito.
Alle urla, ora, è preferibile il silenzio. Della Ragione.
25 luglio 2019 Avv. Filippo Castellaneta