PENALE/Illegittimo vietare al fallito per 10 anni il diritto di impresa
Illegittimo l'ultimo comma dell'art. 216 della legge fallimentare.
Pena : nessuna pena, neanche accessoria, può essere determinata in maniera fissa.
La Cassazione aveva sollevato questione di legittimità costituzionale in riferimento alla norma dell’art. 216 comma ultimo del Regio Decreto n. 216/1942 (legge fallimentare) ritenendola in aperto contrasto con la norma del codice penale che invece prevede che le pene accessorie non possano superare l’entità della pena principale.
L’art. 216 ultimo comma R.D. n. 267/1942 prevedeva : "Salve le altre pene accessorie, di cui al capo III, titolo II libro I del codice penale, la condanna per uno dei fatti previsti nel presente articolo (Bancarotta fraudolenta) importa per la durata di dieci anni al inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa”.
L’art. 37 c.p. invece afferma : "Quando la legge stabilisce che la condanna importa una pena accessoria temporanea, e la durata di questa non è espressamente determinata, la pena accessoria ha una durata uguale a quella della pena principale inflitta, o che dovrebbe scontarsi, nel caso di conversione, per insolvibilità del condannato. Tuttavia in nessun caso essa può oltrepassare il limite minimo e quello massimo stabiliti per ciascuna specie di pena accessoria”.
In passato già Cass. sez. V ud. 19.9.2014 n. 51095 aveva paventato un intervento del legislatore o della Corte Costituzionale per eliminare una norma (il 4 comma dell’art. 216 legge fallimentare)che non applica il principio della equivalenza nella commisurazione della pena principale con la pena accessoria.
Detta sentenza, infatti, affronta il tema della quantificazione fissa delle pene accessorie che impedisce al Giudice qualsiasi vaglio ai sensi dell’art. 133 c.p..
Successivamente, in uno dei processi relativi alla bancarotta Parmalat, la Cassazione, sezione I con ordinanza del 17.11.2017, ha sollevato questione di legittimità costituzionale della norma proprio in riferimento alla circostanza che le pene accessorie superavano le pene principali irrogate.
Infatti con detta ordinanza la Prima sezione penale della Cassazione aveva sollevato, in riferimento agli articoli 3,4,41,27 3e 117, primo comma della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli art 216 ultimo comma , e 223 , ultimo comma del regio decreto 16 marzo 1942 n. 267 recante disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, "nella parte in cui prevedono che alla condanna per uno dei fatti previsti in detti articoli conseguono obbligatoriamente, per la durata di dieci anni, le pene accessorie della inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e della incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa”.
La Corte di Cassazione ha ritenuto che la durata fissa della pena derivante dalle disposizioni censurate contrasti con il principio della "mobilità” della pena, e cioè con la sua tendenziale predeterminazione tra un minimo ed un massimo.
Infatti l’esigenza di "mobilità” (sentenza n. 63 del 1967) 0 "individualizzazione” ( sentenza n. 104 del 1968) della pena, e la conseguente attribuzione al giudice di una certa discrezionalità nella commisurazione tra il minimo ed il massimo previsti dalla legge, costituisce naturale attuazione e sviluppo di principi costituzionali tanto di ordine generale quanto attinenti specificatamente alla materia penale.
La Corte Costituzionale, ha deciso la questione, con sentenza n. 222 del 2018 depositata il 25.09.2018 ed ha ribadito che la regola è la "discrezionalità” e quindi ogni sanzione prevista con le modalità di "pena fissa” deve essere tacciata di incostituzionalità.
Nello specifico una durata fissa di dieci anni delle pene accessorie in questione non può ritenersi ragionevolmente proporzionata rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato.
Tanto in quanto l’art. 216 della legge fallimentare raggruppa una pluralità di fattispecie che, già a livello astratto, sono connotate da ben diverso disvalore, come dimostrano i relativi quadri sanzionatori previsti dal legislatore: reclusione da tre a dieci anni per i fatti preveduti dal primo e secondo comma; reclusione da uno a cinque anni per gli assai meno gravi fatti di bancarotta cosiddetta preferenziale previsti dal terzo comma.
A fronte di ciò la durata delle pene accessorie temporanee comminate dall’art. 216 ultimo comma della stessa legge resta indefettibilmente determinata in dieci anni quale che sia la qualificazione astratta del reato ascritto all’imputato.
Fatta questa analisi la Corte Costituzionale ha statuito che "essenziale a garantire la compatibilità delle pene accessorie di natura interdittiva con il "volto costituzionale della sanzione penale” è che esse non risultino manifestamente sproporzionate per eccesso rispetto al concreto disvalore del fatto reato, tanto da vanificare lo s tesso obiettivo di "rieducazione” del reo, imposto dall’art. 27 , terzo comma Costituzione”
Ed in forza di tali principi ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 216, ultimo comma, del regio decreto n. 216 del 1942, nella parte in cui dispone”la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’ esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa” anziché "la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l’inabilitazione all’ esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici diretti presso qualsiasi impresa fino a dieci anni”.
La sentenza ha il pregio di rompere il muro ingiustificato ed immotivato della pena fissa che impediva di trattare in maniera adeguatamente differente situazioni, comportamenti e condotte tra loro diverse.
Avv. Filippo Castellaneta ( studio legale ModernLaw Corso di Porta Vittoria n. 18 Milano)